giovedì 12 febbraio 2009

Babele



Bisogna mettere travi più resistenti. Abbiamo pensato di trasportare grossi blocchi di pietra su per il fiume. Ci vogliono più operai. Altre squadre di operai. Operai a basso costo. Ci vogliono più blocchi di pietra. Più travi. Ci vuole più impegno. Più sudore. Dobbiamo buttarci il sangue!

L’ingegnere che sognava di diventare un ingegnere, parla per ore e cerca di dare spiegazioni, spiegazioni tecniche. Parla, parla, parla, ma nessuno sa quello che dice. Nessuno segue i suoi paroloni e le sue ipotesi; i suoi calcoli, le sue convinzioni.

Non chiedetemi come ha fatto l’ultima torre a cadere! Non lo so. Eppure, i miei calcoli erano giusti, più che giusti. Erano calcoli esatti e voi lo sapete. Non riesco proprio a capire come abbia fatto a crollare giù?

E mentre l’uomo si perdeva nei suoi calcoli la sua lingua s’allungava fino ad uscire fuori dalla bocca. Un cane. La lingua se ne usciva e s’allungava, sempre di più. Ma l’uomo non ci badava e continuava a parlare, spinto dalle sue convinzioni, dai suoi progetti. Fino a che la lingua cominciò a sanguinare sotto i denti ciarlanti e non si riusciva più a capire una parola.

Signore lei sanguina!
Se continua così si staccherà la lingua da solo!
E che fine faranno i suoi progetti?


Nessuno capì se nel battere i denti sulla lingua l’uomo volesse dare una risposta a queste domande, o se fosse un riflesso incondizionato del dolore che provocava altro dolore e altro sangue, o se stesse ancora cercando di spiegare il suo progetto. Poi qualcosa di simile a una parola gli staccò la lingua. Un cane che urla prima di morire. L’uomo cadde a terra.

Avete visto? Gli è caduta la lingua! E adesso che fa? È incredibile! Cerca ancora di parlare, di spiegarsi. Steso a terra si è messo a disegnare linee e numeri tingendo di sangue l’indice che affonda nella lingua mozzata come si affonda la penna in un calamaio.

Così diceva il matto dai piedi grossi andando avanti e indietro senza sosta. Due piedi dalle dimensioni incredibili. Due piedi messi in due scarponi di cuoio che non avevano nemmeno la numerazione. In realtà non erano dei veri e propri scarponi, niente che un calzolaio potesse mai immaginare di creare, neanche il peggiore tra loro. Erano delle toppe di cuoio cucite male su due pezzi di legno.

Oddio! Non lo capisco! Che dice? Dice che sta morendo? Oppure non se n’è accorto? Non lo capisco! Cosa sta dicendo? Cosa sta scrivendo? Ma almeno ci sente? Se mi metto a urlare mi ascolterà?

Avanti e indietro. Avanti e indietro. Avanti e indietro.
L’uomo non trova pace e continua a non capire. Suda e borbotta. Se ne sta sotto al sole e va avanti e indietro. Soffre perché non riesce a capire. Vorrebbe fare qualcosa. Qualcosa di utile ma non fa altro che trascinare i piedi sul terriccio e non esce dalla polvere. Non riesce a fare niente che possa aiutare il moribondo. Vorrebbe forse una spiegazione da lui. E mentre che pensa, suda e cammina, scava un grosso fossato con i piedi che vanno sempre e solo avanti e indietro.
Una donna avvolta nel nero passa in silenzio portando con se una giara d’acqua. Non dice mai nulla. E nessuno chiede mai quali sono i suoi pensieri. Senza essere chiamata lei si ferma e mesce per chi ha sete senza mai ricevere un sorriso o una parola.
Un operaio con la pala riempie il fossato seppellendo i due uomini e la loro follia. La donna gli serve l’ultima acqua che riluce cadendo dalla bocca dorata, poi scompare. Si vede solo una lunga stoffa nera e vuota volare nel vento.
Dall’alto il capocantiere arabo canta una litania incomprensibile che annuncia la fine della giornata di lavoro. E nessuno è più o meno contento di prima.
Poi pezzo per pezzo, uomo dopo uomo spariscono tutti.

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